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“Renato Coèn l’uomo privato, l’uomo pubblico” di Luciana Coèn su SPES

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febbraio 4, 2019 by MdF

Proponiamo con piacere ai lettori di massodellefateblog la lettura della bella recensione che Giovanni Genovesi ha dedicato al libro di Luciana Coèn “Renato Coèn l’uomo privato, l’uomo pubblico”; la recensione è comparsa sul n. 8 di SPES.

 

Luciana Coèn, Renato Coèn, l’uomo privato, l’uomo pubblico, Signa (FI), Masso delle Fate, 2018, pp. 110, € 14

Il lavoro di Luciana Coèn è una testimonianza dell’attaccamento alla famiglia e, in particolare a suo padre Renato Coèn, che anch’io ho avuto la fortuna di conoscere quando, dal 1958, ero allievo di Lamberto Borghi alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze.

Non ho mai seguito i suoi seminari, che Coèn teneva come assistente di Borghi, non per trascuratezza ma perché seguivo quelli di Mario Valeri, altro assistente di Borghi e con cui sono stato poi amico fraterno.

Leggendo il libro della Luciana Coèn, ho rimpianto di non aver potuto essere allievo anche di suo padre, un uomo che sapevo di grande rilievo nel nostro settore e che, a conferma, balza dalle righe di sua figlia come studioso acuto e coerente con i suoi ideali umani e politici di fede sionista sui quali profonde il suo sforzo spirituale e la sua fede “che lui pone sullo stesso piano rispetto allo sforzo materiale. Anzi, forze li pone più in alto…” (p. 69).

In Palestina si era rifugiato nel 1938, con la moglie anche lei ebrea e insegnante, a seguito delle vergognose leggi razziali fasciste.

Vi restò, lavorando come insegnante e come infaticabile fautore dello Stato d’Israele, ritornando in Italia alla fine della guerra mondiale.

Riprese il suo posto nella scuola, il Liceo “Michelangelo” a Firenze e restò in Italia per amore dei figli e per la ferma volontà di dedicarsi agli studi, nonostante gli amici israeliani gli chiedessero il rimpatrio (cfr. Lettere a pp. 69-71) per assumere l’incarico di ministro dell’istruzione (la notizia l’ho appresa non dal libro, ma da altra fonte).

Il saggio della Coèn ha due parti distinte, ma logicamente quanto strettamente unite.

La prima si diffonde sui passaggi della memoria dei rapporti con suo padre, uomo dal comportamento riservato e gentile – le metteva sempre una caramella sul comodino – e mai invasivo della privacy altrui – la posta a lei indirizzata messa sul letto senza aprirla – e anche disponibile per i compiti di scuola.

Ma Luciana sente la mancanza di una carezza, di un colloquio fitto con quel padre che lei avverte importante e troppo lontano, che, dopo un post prandium di un’oretta, a telefono staccato, si chiude nel suo studio con i suoi libri e la sua Olivetti 32 pronta, aperta sul tavolo, e che, se deve uscire, lo chiude a chiave lasciandola nella toppa come dire, nessuno entri, questo è il mio territorio. Lo sguardo dei suoi occhi chiari era un esplicito ammonimento a non trasgredire, era uno sguardo di un’autorevolezza silenziosa.

Lei, la più piccola dei quattro figli, i primi, Giordania e Hermòn, avuti dalla prima moglie di cui era rimasto vedovo, e gli altri due, Gabriele e Luciana, nati dal secondo matrimonio con Gioconda Cudrano, avverte, fiutando l’atmosfera di casa, seria, rispettosa dell’altro e coerente (cfr. la bellissima lettera, scritta alla futura sposa Gioconda che, cristiana, aveva tutta la contrarietà dei  parenti a sposarsi con un uomo di religione ebraica, pp. 78-80) tutta l’importanza pubblica e sociale che ha il padre e ne rispetta rigorosamente le disposizioni e anche quella, ben pesante, di occuparsi della madre caduta gravemente ammalata.

Un’altra delle traversie che si abbatte su Renato e la sua famiglia. Luciana è caricata dal padre di una responsabilità che la fa sentire importante e, almeno nei primi tempi, la gratifica: il babbo ha pensato a me! Ma è una piccola di una decina di anni e ha bisogno di sentire più vicino il suo babbo, di essere coccolata per conoscere meglio, quel babbo autorevole che amici ex allievi, come Antonio Corsi descrivono premuroso come un babbo e amici colleghi, quali Lamberto Borghi, Gastone Tassinari, Mario Valeri e altri, ne sottolineano la serietà, della persona seria, sì, ma sempre pronta alla battuta arguta, ricca di umanità e di cordialità e molto vivace nella conversazione e nei giudizi (cfr. p. 43).

Renato non poteva trasmettere anche a coloro che lo circondavano con affetto quelli che erano i suoi valori: l’estremo ri­spetto per la vita propria e altrui, la ricerca costante dell’altro come essere unico e irripetibile, sempre in divenire e degno di essere ascoltato e conside­rato, il rifiuto della violenza e il rispetto, la religiosità come unione con norme ritenute sacre (cfr. p. 42).

Ma ecco quanto scrive Luciana: “Maestro di questi passaggi è stato il silen­zio… Un silenzio carico della sua presenza-assenza, presenza nel suo studio, ma assenza nella vita contemporanea familiare; carico della sua autorevo­lezza e religiosità ma scarso di gesti affettuosi, di calore, di corporeità, di ascolto. Pure era indiscusso il suo affetto ma è mancato il calore, il corpo del “paterno”; è stato un Padre per tutto quello che ha trasmesso, ma è stato molto meno babbo fatto di carne e di emozioni espresse e pronto ad ascol­tare il figlio o la figlia.

La nostalgia, che rimarrà tale, è di non essergli potuta stare più vicino per conoscerci meglio e forse ridimensionare questa sensazione di un babbo fatto di carne” (p. 42).

È di tutta evidenza il rammarico di Luciana per questa necessità di cui avverte la straziante mancanza e la manifesta con espressioni di una pungente e amara delicatezza.

Ma ecco la seconda parte del libro: la “rivalsa” della figlia che, morto il pa­dre e anche la madre, entra in possesso dell’archivio paterno, con le sue let­tere a parenti, amici e maestri come Ernesto Codignola, i suoi articoli per le varie riviste con cui collaborava, le numerose recensioni a testimonianza della sua insaziabile sete di letture, gli abbozzi dei suoi libri, i documenti e i ciclo­stilati sul movimento sionista abbracciato con la passione dei suoi venti anni e portata avanti con indomita coerenza insieme ad amici come Leone Carpi e Corrado Tedeschi, le foto giovanili, anche di studente discolo, che comba­ciano con i ricordi del figlio  Hermòn, che racconta anche la passione per la Spal, i suoi intrecci amicali con il vicinato, il suo trasmettere a chi era en­trato in rapporto con lui, l’importanza e la voglia dello studio e tante altre testimo­nianze di amici e di studiosi che ne hanno ricordato il lavoro come ricerca­tore della scienza dell’educazione[1].

Luciana, leggendo l’archivio del Padre ha dato vita ad un altro suo insegnamento fondamentale per la conduzione di una sana vita culturale: essere capace di avvertire la compresenza, come ricordava Aldo Capitini, dei vivi e dei morti. Suo padre è entrato in comunicazione con lei tramite i suoi scritti e le ha detto tutto ciò che da vivo glielo aveva suggerito silenziosamente. E così, mi sembra che, portando a termine questo scritto, Luciana abbia sommessamente recitato i suoi versi di venticinque anni fa:

“Mi manchi, oggi, padre;

il tuo pensiero è penetrato in me…

Nonostante i silenzi,

le parole limitate alla quotidianità

gli anni che ci hanno separati

sin dalla nascita,

il tuo pensiero si è insinuato profondamente in me…”(p. 58).

Credo proprio che il lavoro di Luciana Coèn, sia proprio un bel libro sull’educazione.(Giovanni Genovesi)

 

[1] Io stesso, insieme a Antonio Corsi, ho curato un saggio dal titolo Roger Cousinet e Renato Coèn. Problemi dell’educazione e della scuola, Milano, Franco Angeli, 2001, cui hanno partecipato, oltre i curatori, studiosi di varie Università italiane come Franco Cambi, Giacomo Cives, Luciana Bellatalla, Enzo Catarsi, Alessandro Mariani, Angelo Luppi, Paolo Russo, Tiziana Pironi, Elena Marescotti, Silvia Marcucci.

renato-coen

 

 

 


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